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Assad trattiene detenuti in trappola a Homs: “Sotto terra senza cibo”

La situazione in Siria continua a evolversi drammaticamente, soprattutto dopo il recente crollo del regime di Bashar Assad. La prigione militare di Saydnaya, nota come il ‘mattatoio umano‘ per le atrocità commesse al suo interno, attira l’attenzione di migliaia di famiglie siriane in cerca di congiunti dispersi. Con la liberazione di alcuni detenuti da parte dei ribelli, cresce la speranza ma anche l’angoscia per coloro che potrebbero restare intrappolati in questo oscuro labirinto. Le testimonianze e i racconti di quelli che vi hanno vissuto mettono in luce una realtà che solo ora inizia a emergere in tutta la sua devastante crudezza.

Il contesto della prigione di Saydnaya

Situata a circa 30 chilometri a nord di Damasco, la prigione di Saydnaya è stata teatro di violenze inenarrabili fin dagli anni ’80. Il complesso è composto da due edifici distinti: il ‘Palazzo Bianco’, riservato a membri del regime considerati non affidabili, e il ‘Palazzo Rosso’, dove venivano rinchiusi oppositori politici. Amnesty International ha definito Saydnaya un “mattatoio umano”, sottolineando come, tra il 2011 e il 2018, oltre 30.000 detenuti siano morti a causa della tortura, della fame o dell’inadeguata assistenza medica. Le condizioni di vita all’interno di queste mura sono state descritte da sopravvissuti come disumane, con detenuti costretti a vivere in spazi angusti, privati di ogni forma di cura e dignità.

In aggiunta alla violenza fisica, gli ex detenuti descrivono un clima di terrore costante, amplificato dalla possibilità di essere privati della vita senza preavviso. Alcuni esperti hanno ipotizzato che all’interno della prigione sia in uso un crematorio, per smaltire i corpi delle vittime, ma tali accuse sono sempre state rigettate dalle autorità siriane. Nonostante ciò, le testimonianze di chi è riuscito a fuggire raccontano di torture inaudite e abusi disumanizzanti sistematici.

Le operazioni di soccorso di fronte alle celle sotterranee

Con le recenti liberazioni, le squadre di soccorso, tra cui gli ‘Elmetti Bianchi‘, sono in prima linea nella ricerca di detenuti ancora accampati in celle sotterranee. Le operazioni per individuare gli accessi a questi spazi rimanenti sono complesse, con squadre che utilizzano cani, attrezzature tecnologiche e una rete di informazioni per cercare di salvare vite umane. Un portavoce ha confermato la difficoltà della situazione, sottolineando la mancanza di informazioni precise sugli accessi e la necessità di un pronto intervento.

Per incentivare la popolazione a fornire informazioni utili, gli ‘Elmetti Bianchi‘ hanno messo in palio un premio di 3.000 dollari. Ogni notizia che potrebbe portare a un ritrovamento è vista come preziosa. Tuttavia, la presenza di campi minati attorno al carcere ha sollevato preoccupazioni tra i soccorritori e la folla in attesa, che cerca di identificare propri familiari. Restare a distanza è fondamentale per evitare incidenti e per preservare eventuali prove utili a documentare gli abusi.

La speranza e la sofferenza delle famiglie in attesa

Mentre le operazioni di salvataggio proseguono, molte famiglie raccolgono attorno alle mura di Saydnaya nella speranza di rivedere congiunti rapiti anni fa. La folla è un mix di angoscia e speranza, con volti segnati dalla sofferenza e dal desiderio di riunirsi con i propri cari. Testimonianze come quella di Aida Taher, che da dodici anni cerca il fratello scomparso, rivela la dimensione umana di una situazione già critica. Il dolore di non sapere è un elemento devastante che colpisce molte famiglie siriane.

Ogni giorno, nuovi sopravvissuti emergono da dietro le mura di Saydnaya, portando con sé storie strazianti di torture e privazioni. L’umanità delle loro esperienze si intreccia con il dramma collettivo di una nazione ferita e sfinita da anni di conflitto. La speranza di riunire famiglie disperse rappresenta non solo una necessità personale, ma anche un simbolo di resistenza per un popolo che ha sofferto enormemente e continua a lottare per la libertà e la dignità.

Alessandro Romano

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