La questione fiscale globale sta subendo un significativo cambiamento. Nel 2021, 147 Paesi, sotto l’egida dell’OCSE, hanno firmato una dichiarazione mirata a riformare la tassazione delle multinazionali. Questo accordo, articolato su due pilastri, si propone di affrontare le sfide della digitalizzazione dell’economia e di garantire una tassazione equa, ma le sue implicazioni sono complesse e richiedono un attento esame. L’implementazione è, difatti, ostacolata da varie problematiche, compreso il rifiuto di alcune potenze mondiali di adeguarsi ai nuovi standard.
L’accordo firmato nel 2021 dai 147 Paesi si è reso necessario per contrastare le pratiche di evasione fiscale delle multinazionali, che battere i profitti nei paradisi fiscali anziché là dove effettivamente operano. Il primo pilastro dell’accordo cerca di redistribuire il gettito fiscale, spostando parte dei profitti dal Paese di residenza legale a quelli in cui avvengono le vendite. Al contempo, il secondo pilastro propone una soglia minima di tassazione del 15%, applicabile alle multinazionali con un fatturato di almeno 750 milioni di euro.
Questa proposta è destinata a limitare la concorrenza fiscale tra diversi Stati, evitando che le nazioni competano in base alle aliquote fiscali più basse, favorendo un ambiente commerciale più giusto e meno diseguale. Sebbene l’iniziativa abbia ricevuto un’ampia adesione, la sua realizzazione si dimostra impegnativa, specialmente a causa dell’inerzia di Paesi chiave come Stati Uniti e Cina.
Il primo pilastro si concentra su grandi multinazionali con fatturati superiori ai 20 miliardi di euro e mira a contrastare il trasferimento artificiale di profitti. Per raggiungere questo obiettivo, viene proposto di riallocare il 25% di quella parte di profitti che supera il 10% del fatturato. Ad esempio, un’azienda con fatturato di 40 miliardi e profitti di 8 miliardi avrebbe un miliardo di profitti riallocabili, soggetti così alle aliquote nazionali. Questa misura non solo garantirebbe una tassazione più equa, ma potrebbe anche produrre un incremento significativo delle entrate fiscali globali.
Il secondo pilastro funge da rete di sicurezza, imponendo un’aliquota minima mondiale del 15% per le multinazionali. La struttura di questa regola presenta diverse complessità, poiché viene applicata attraverso varie modalità e tassazioni additive in base alla giurisdizione di residenza. In questo modo, le multinazionali con benefici fiscali in paesi non aderenti all’accordo possono risultare in un contesto di maggiore pressione fiscale nel Paese in cui svolgono la loro attività principale.
Nonostante le buone intenzioni alla base dell’accordo, l’implementazione del primo pilastro si presenta ostica. È necessario un trattato internazionale per attuare le modifiche proposte, ma ad oggi non è stata raggiunta una definizione chiara delle misure. L’OCSE ha rilasciato una bozza di trattato a ottobre 2023, ma i progressi restano lenti, e la scadenza del 30 giugno 2024 per una versione definitiva è già trascorsa senza risultati concreti.
Perché la riforma possa entrare in vigore, è necessaria la ratifica da parte di almeno 30 Stati, rappresentanti almeno il 60% delle imprese coinvolte. La maggioranza di queste ha sede negli Stati Uniti, il che rende la loro adesione fondamentale. Attualmente, i Paesi europei appaiono favorevoli, mentre l’uscita di scena di Trump e l’instabilità politica americana rendono incerta la ratifica. Il secondo pilastro, d’altra parte, richiede solo l’adozione da parte dei parlamenti nazionali, facilitando così un’implementazione potenzialmente più rapida.
In ambito europeo, la situazione sembra promettente, con molti Paesi pronti ad implementare le regole fissate dal secondo pilastro dell’accordo. L’Unione Europea ha adottato una direttiva che impone agli Stati membri di attuare la minima aliquota globale entro il 2024. Tuttavia, rimangono esclusi Paesi come Estonia e Malta, i cui processi di adattamento richiesti sono ancora in fase di definizione.
L’assenza di adesione da parte di grandi potenze economiche come gli Stati Uniti e la Cina mette a rischio l’efficacia complessiva della riforma. La Cina, pur avendo firmato l’accordo, mostra riluttanza nell’applicazione delle nuove regole, continuando a permettere il trasferimento della residenza delle multinazionali verso giurisdizioni più favorevoli. Così, mentre altri Stati procedono verso un nuovo paradigma fiscale, l’inerzia di queste due superpotenze può mettere in discussione l’intero progetto di riforma fiscale globale. La strada da percorrere è lunga e tortuosa, con numerose incognite all’orizzonte.
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