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Il piano Draghi è l’unica ricetta per rilanciare l’Europa: il vertice a Bruxelles conferma

L’attuale dibattito a Bruxelles riguardo al nuovo bilancio comunitario ha messo in ombra una questione cruciale: l’Europa ha le risorse necessarie per sostenere il piano di riqualificazione proposto da Mario Draghi? Nonostante le dichiarazioni di intenti dei governi europei siano in linea con le proposte dell’ex governatore della Banca Centrale Europea, la realtà dei fatti mostra un’immobilità inquietante nell’assicurare i fondi richiesti. Il piano prevede investimenti massicci per 800 miliardi di euro all’anno per finanziare la transizione economica, ma la mancanza di impegni concreti aggiunge incertezza al futuro.

La sfida del finanziamento pubblico: sono davvero insufficienti?

Il piano Draghi suggerisce che circa un quarto degli investimenti necessari dovrebbe provenire dai bilanci pubblici, mentre la restante fetta dovrebbe arrivare dal settore privato. Tuttavia, il quadro della finanza pubblica in Europa presenta delle gravi problematiche. Le direttive fiscali dei vari Stati membri, infatti, si prospettano sempre più indirizzate verso misure di austerità. Di conseguenza, non rimangono margini per investimenti significativi e, anzi, eventuali eccezioni potrebbero concentrarsi maggiormente nel settore della difesa piuttosto che in altre aree strategiche per la crescita.

Nonostante i fondi pubblici rappresentino la via più semplice da mobilitare, la loro disponibilità è seriamente limitata, rimandando così le speranze di un rilancio dell’economia europea. Questo scenario non fa altro che aumentare la pressione sui bilanci nazionali già sotto stress e con difficoltà nell’allocare risorse verso progetti modernizzanti.

Il potenziale insospeggiato dei investimenti privati

Focalizzandosi sul settore privato, i dati confermano l’esistenza di ingenti capitali. Gli investimenti diretti degli europei all’estero ammontano a circa 10 mila miliardi di euro, accompagnati da ulteriori 14 mila miliardi in titoli e azioni. Un aspetto curioso è la concentrazione di questi fondi in località come le isole Cayman e le Bermuda. Catalizzare questi capitali con incentivi, opportunità e condizioni favorevoli potrebbe giocare un ruolo determinante nel sostenere gli investimenti richiesti dal piano Draghi.

Un’altra importante fonte di denaro è costituita dai risparmi bancari degli europei, che ammontano annualmente a circa 2.600 miliardi di euro. Questa massa di risparmi è prevalentemente depositata in conti correnti e libretti, per un valore stimato di oltre 11 mila miliardi, equamente suddivisi tra tutti gli asset finanziari in Europa. Se l’Europa riuscisse a raggiungere la stessa proporzione di risparmi liquidi rispetto agli investimenti finanziari come negli Stati Uniti, emergerebbero risorse per 350 miliardi di euro l’anno, chiaramente necessarie per rivitalizzare l’economia dell’Unione.

Tuttavia, si tratta di un’operazione di non facile attuazione. Ci sono ostacoli psicologici, opportunità limitate e un mercato frammentato. Le banche, pur essendo in possesso di risorse, agiscono con una mentalità arcaica: limitano gli investimenti nell’innovazione, favorendo invece i progetti immobiliari. Una situazione che diventa sempre più insostenibile in un contesto dove il tempo è un fattore cruciale.

La stagnazione dell’industria manifatturiera e la ricerca di nuova competitività

La transizione economica prospettata da Draghi non è una semplice possibilità, ma un imperativo per affrontare una crisi di lunga data nel modello economico europeo. Negli ultimi dieci anni, il Pil degli Stati Uniti è aumentato del 25%, mentre i grandi paesi europei, come Germania, Francia e Italia, hanno stagnato con una crescita di appena il 10%. Le cause principali di questo gap sono da ricercare nella diminuzione del contributo dell’industria manifatturiera tradizionale, che ha vissuto un drastico calo negli ultimi cinque anni, in parte provocato dall’esplosione dei costi energetici e dalla perdita di competitività nei confronti della Cina.

Infatti, dall’ultimo quinquennio, la Cina ha ridotto le importazioni dall’Europa di un terzo, aumentando nel contempo le proprie esportazioni del 50%. La possibilità di attingere a un mercato in espansione come il cinese non è più vantaggiosa come una volta, e questo pone in serio rischio l’industria manifatturiera europea. Il piano di Draghi punta a liberare le industrie dal peso economico dell’energia e a facilitare una transizione verso settori innovativi. Tuttavia, la chiave sarà la capacità di riallocare i fondi disponibili verso nuove opportunità piuttosto che verso totali riprendersi delle risorse di un passato che non ha più futuro.

Giulia Martini

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